Stefano Mosto

Home / Artisti / Stefano Mosto
Stefano Mosto

Stefano Mosto

M I C R O C O S M I

M I G R A Z I O N I

Dall’approccio, originariamente quasi ludico, con un docile materiale di familiare quotidianità si sviluppa la ricerca di Stefano Mosto: privilegiata nella sua sperimentazione è infatti la carta, la carta degli involucri per alimenti, la carta dei sacchetti del pane: fogli sottili, ridotti in piccole strisce che, ripiegate come nell’arte degli origami e duttilmente plasmate, assumono sembianze di minuscole figurette umane variamente atteggiate, che divengono poi elementi di diversificati assetti compositivi.

I gruppi – che della carta mantengono l’originaria, sobria cromia – si innestano su basamenti o entro le fenditure di lastre del colore dell’ardesia, della pietra nera di Lavagna: supporti che sono a loro volta frutto di un’operazione di “recupero” (calcinacci annegati nel cemento), come le teche in vetro che proteggono le composizioni.

Ma il “recupero creativo” di Mosto non si esaurisce in una esibita abilità manuale, in una produzione di accattivante piacevolezza; si configura invece come una forma d’arte che mira a stimolare l’immaginazione, la riflessione, l’emozione, dunque l’attiva adesione del fruitore.Le piccole figure, accomunate da lunghe vesti drappeggiate sulle quali si innesta una cilindrica testa/copricapo, senza tempo nella loro stilizzazione (come del resto lo spazio che le accoglie), nel loro vagare, nel loro disporsi, nella loro interazione all’interno di un microcosmo alludono ad aspetti della condizione e della ricerca umana.

Le teorie di figurette che avanzano nel solco di una scabra, incombente parete “di pietra” evocano il cammino e le migrazioni dei popoli, ma anche il viaggio interiore dell’individuo. Alla relatività della percezione, alla fuorviante scala di valori che spesso condiziona i nostri comportamenti, rimandano invece, con sottile ironia, altri brani, caratterizzati dal corale e “curioso” assieparsi dei gruppi intorno ad oggetti che, minuscoli nella realtà quotidiana, assumono in tali contesti una dilatata, totemica parvenza.

Una accorta regia, di sicura valenza teatrale (non immemore di richiami a soluzioni propriamente cinematografiche), regola di volta in volta l’impianto compositivo, l’azione scenica e il gioco dei panneggi che avvalora le ritmiche cadenze e l’eloquente espressività dei gruppi, con esiti non privi di “monumentale” impatto pur nelle contenute dimensioni delle opere.

Lilli Ghio

Guardando, per la prima volta, le micro-figure di Stefano e posandomene due o tre sul palmo della mano per scattare una foto col cellulare, dove le linee dell’epidermide assumevano grande evidenza; guardando – dicevo – per la prima volta quelle minuscole sculture, alte pochi millimetri, ma così nettamente definite nella postura e nel gesto, avevo pensato a quello storico dell’arte greca che all’università, diversi anni fa, ci faceva lezione.

Era, se ben ricordo, un corso sulla ceramica del periodo orientalizzante, VIII e VII secolo a.C.: «Vedete», lui ci aveva detto, mostrandoci l’immagine di una figurina non più alta di cinque centimetri, «come il carattere monumentale di un oggetto non sia legato alle sue dimensioni». E aveva aggiunto: «La cosa rischia spesso di sfuggirci».

Così, guardo un gruppo di figurine realizzate da Stefano lavorando la carta con un po’ di colla, e penso a un monumento di piazza, bronzeo o marmoreo: a qualcosa che si limiti a trasferire in altre dimensioni quella monumentalità. Perché, insomma… ci sarebbe un problema?

Franco Boggero

Nato a Genova, dove ha studiato, vive e lavora, è architetto impegnato in diversi progetti creativi che spaziano dall’ambito visuale (fotografia, produzione video) alla musica. All’esercizio a lungo coltivato della pittura e soprattutto del disegno, ha negli ultimi tempi affiancato la ricerca di nuove soluzioni artistico-espressive e comunicative, che si giovano di una sorprendente capacità manuale nella trasformazione “creativa” di materiali di consueto impiego (e scarto).

Un primo, significativo nucleo di opere è stato presentato al pubblico nell’ambito della mostra Esodo, curata da Stefano Bucciero e Maria Laura Bonifazi presso la galleria Lazzaro (Genova, 29 aprile – 14 maggio 2022).

Origami zen. Miniature in carta, questione di millimetri. Composizioni fuori del tempo, teorie classiche (degne del frontone del Partenone o della colonna traiana, i cortei delle vergini e dei martiri nella basilica di Sant’Apollinare a Ravenna) e no (le fila dei migranti, dei cacciati, dei perditi nelle sculture corali di Selim Abdullah). Piccole. E sintetiche, lasciano la a chi osserva la responsabilità del dettaglio – ininfluente – ma anche l’interpretazione. Scene mitologiche o bibliche, pastorali o militari (si potrebbe anche pensare all’esercito di terracotta) oppure esseri non solo senza tempo, ma anche senza spazio, sia esso un deserto, la gola di una montagna, la roccia che sovrasta queste figure apparentemente statiche. Mosto usa sapientemente la carta, materiale appena più pesante dell’aria (a meno che non si tratti di un tomo caduto dalla sommità di una libreria, doloroso quanto un tifone), che rende pesante, materico, marmoreo anzi granitico alla visione. Perfetto.
Stefano Bigazzi
Miniaturizzati, estremamente definiti
al limite dell’esistenza,
per questo inafferrabili
se non per segrete aperture:
la vita è un gioco a levare,
e uno spiraglio nell’ampiezza
è la riduzione microscopica,
come una frattura in un sentiero
che disvela uno scenario
oltre ogni frontiera,
dove un sassolino è sufficiente per sedersi
e dove l’uomo, affamato di vita,
costruisce altre recinzioni.
Guido Caserza
Allucinosi lucida. È questo l’impatto che si ha posando lo sguardo sulle figure stilizzate di Stefano Mosto.
La sensazione è quella di vedere chiaramente infiniti dettagli: il mantello sollevato da una folata di vento, l’andatura affaticata di quello che deve aver già percorso molta strada, e di quello più giovane che lo segue con commovente fedeltà; e poi il gruppo in orazione, quello inchinato al sacro, l’altro sorpreso dall’incontro mistico, un altro che procede a stento e rimane defilato, forse per timore. Sembra di guardare, ma ci si accorge perturbati, di guardare le proprie proiezioni, allucinosi lucide, appunto.
Eppure l’arte è soprattutto questo: non tanto la percezione del bello, quanto la proiezione del sublime.
Non tutto ciò che si vede favorisce questa meravigliosa operazione, solo l’arte, e la natura.
Marco Maio